La storia della nascita ed evoluzione della pizza, con qualche divagazione obbligata sui “maccaroni”
Partiamo addirittura dal neolitico, quando l’uomo scoprì che poteva impastare del grano finemente macinato con acqua, e cuocere quell’impasto, a forma di disco, su pietre roventi. Però, a volte, inacidiva e quell’impasto gonfio doveva essere buttato via.
Poi, circa seimila anni fa, in quell’area fertile che andava dal Nilo all’Eufrate, qualcuno osservò che se quell’impasto veniva lasciato all’aria e cotto il giorno dopo, ne risultava un pane più soffice, fragrante e digeribile.
Cerchiamo di capire, con parole semplici, perché.
Nella farina di cereali è presente l’amido: un polisaccaride, cioè una molecola complessa formata di molti zuccheri (o carboidrati). Un batterio il Saccharomyces Cerevisia, è un organismo unicellulare che si ciba di zuccheri e quindi di amido, facendolo fermentare.
La fermentazione produce etanolo ed anidride carbonica che viene intrappolata nella maglia glutinea dell’impasto. In pratica migliaia di bollicine formano minuscole cavità che generano l’alveolatura interna della pasta.
Durante il processo di lievitazione (ad una temperatura compresa tra i 30°C ed i 38 °C ) l’anidride carbonica aumenta di volume. L’espansione continua poi durante la cottura. Ecco spiegato il processo base della lievitazione del pane.
Gli egizi non avevano conoscenze teoriche sugli amidi ed i batteri e, quindi, attribuirono il processo a misteriosi interventi soprannaturali.
In termini pratici riuscirono però, ad affinate le tecniche giuste per utilizzare quella pasta lievitata, cuocendola mediante uno strumento di loro invenzione: il forno.
I primi forni erano progettati per un funzionamento esattamente al contrario di quelli attuali: una struttura conica dove all’interno veniva bruciata la legna, mentre, sulle pareti esterne inclinate, venivano posti i panetti impastati e leggermente appiccicosi che vi restavano attaccati: quando essi cadevano alla base del cono, erano cotti su un lato; così venivano riposizionati sull’altro, per completarne la cottura.
Questa tecnica è visibile nella pittura parietale della tomba di Ramses III (Nuovo Regno 1570-1070 a.C) a Medinet Habu,
Solo in un secondo tempo venne l’idea di dividere in due il forno ponendo le schiacciate di pasta e acqua lievitate insaporite con erbe aromatiche sopra un piano di cottura in pietra sotto il quale ardeva un fuoco…
Nei giorni “lavorativi” invece la base dell’alimentazione era costituita dalla “maza” una sorta di galletta abbrustolita di farina d’orzo mescolata con acqua, latte o olio.
Passando alla Roma del II secolo ecco che acquisiamo l’attuale frumento – ottenuto attraverso selezioni e incroci fra i diversi tipi di farro. A noi è pervenuto il termine “farina” derivato da “far”, nome latino del farro.
Ecco una prima, timida, evoluzione verso la Pizza… I dischi di pane di forma rotonda posti sul focolare a cuocere al calor della cenere cominciano ad essere utilizzati come basi per contenere pietanze sugose.
Catone ci ha trasmesso una ricetta, quella della “placenta”, una torta che presenta singolari analogie di struttura con molte torte salate odierne.
Si preparava una base di pasta e su questa, a strati sovrapposti, si alternavano più volte una pasta all’olio composta con farro e farina di frumento e del formaggio pecorino fresco mescolato con miele.La cottura avveniva in forno, su uno strato di foglie d’alloro unte d’olio e sotto un coperchio di terracotta coperto da braci ardenti.
Durante gli scavi archeologici di Pompei -sepolta dalla cenere vulcanica a seguito all’eruzione del Vesuvio del 79 d.c – sono state rinvenute scodelle per il cacio, la cuccuma per l’olio e una statuina del “placentarius” – il venditore di queste specialità – conservata nel museo archeologico di Napoli.
Sempre a Pompei sono stati ritrovati i resti di alcuni locali in “via dell’Abbondanza” i “Thermopolium” dove era possibile acquistare cibi pronti per il consumo.
Erano locali con un bancone nel quale erano incassate grosse anfore di terracotta, atte a contenere le vivande ed assomigliano in maniera impressionante ai moderni fast food…
Della pizza, però ancora nessuna traccia…
Bisogna attendere il VII secolo quando arriva, con le invasioni dei Longobardi, un vocabolo del germanico d’Italia: “bizzo” o “pizzo”, da cui oggi deriva il moderno “bizzen” (boccone, focaccia e pezzo di pane).
Questo potrebbe essere all’origine del termine pizza.
Ma altre interpretazioni lo fanno risalire al greco “pitta”, mentre i latinisti hanno due interpretazioni: da “pinsa”, participio passato del verbo latino “pinsere”: schiacciare, oppure da “pistus”, il nome del mattarello per spianare la pasta.
È una recente ricerca di Giuseppe Nocca, storico della cultura alimentare e docente dell’Istituto Alberghiero di Formia a svelarcelo.
In un documento notarile conservato presso l’Archivio della Cattedrale di Gaeta avente come oggetto la locazione di un mulino presso il fiume Garigliano, relativamente al pagamento si indicano, tra l’altro: “doduodecim pizze”.
Arriviamo quindi al 1535 quando, finalmente, nella sua opera: “Descrittione dei lvoghi antichi di Napoli e del suo amenisfimo distretto” il poeta e saggista Benedetto Di Falco scrive che: “… la focaccia, in Napoletano è detta pizza”.
A cavallo fra il ‘500 ed il ‘600 la tradizionale schiacciata di farina di frumento impastata e condita con aglio, strutto e sale grosso comincia a trasformarsi…
L’olio d’oliva comincia a prevalere, compare l’aggiunta di formaggio, mentre erbe aromatiche donano i loro aromi e sapori alla pizza.
Ecco che compare una pizza molto interessante, che divenne ben presto celebre: la pizza alla “Mastunicola“.
Al solito disco di pasta, condito con strutto, pepe, sale, formaggio fresco, venivano aggiunte foglie di basilico, ottenendo un prodotto – rispetto alle tradizionali schiacciate – più profumato, più ricco di colore e più gustoso .
il vocabolo dovrebbe essere piuttosto una storpiatura del termine dialettale “vasinicola”, con cui si indicava, appunto, il basilico.
L’inserimento del basilico è un importante passo in avanti non solo nell’evoluzione del piatto, ma anche un cambiamento nel costume e nel modo di pensare, in quanto in precedenza era fonte di superstizione.
Per gli antichi Greci e Romani era un simbolo diabolico, di sfortuna e di odio, pianta con capacità di generare stati di torpore e, addirittura… di pazzia.
Sarà stata “na pazzia”, ma da a
Alla stessa epoca risale una pizza marinara ante litteram , quella ”cu ‘e cicenielle”, (in italiano “bianchetti”, il novellame del pesce azzurro).
Nel ‘700 la pizza, nelle due versioni: quella al forno e quella fritta (ne parleremo dopo) veniva cotta nelle botteghe, per essere poi venduta da ” ‘O guaglione ‘e puteca” (il garzone di bottega).
Egli, portando in equilibrio sulla testa un contenitore di rame, la “stufa”, girava per le strade ed i vicoli della città, lanciando a gran voce il “richiamo” per i passanti che potevano così gustare le pizze, ancora calde e già confezionate con diversi ingredienti e condimenti.
Altri tempi, si dirà. Ma non tanto considerando le consegne con i contenitori termici di oggi ed il futuro, con i droni che svolazzando porteranno la pizza direttamente alla nostra finestra…
Solo successivamente si affermò l’abitudine di gustarla presso i forni oltre che per strada o in casa.
Nacquero, come vedremo poi, le pizzerie.
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