Come venivano chiamati i fornai dell’epoca e come si vestivano?
Un nome che tutt’oggi viene utilizzato, i così detti Mastri, cioè Maestri, Capi dei cuochi, i dirigenti delle cucine, quelli che oggi si dicono alla francese Maître o Chef. Essi stabilivano i menu del giorno, che suggerivano gli impasti, i condimenti, gli ingredienti, i modi di cottura, gli aromi, i contorni etc.
Come vestivano i Mastri tavernai dell’epoca ?
Portavano al piede leggere pianelle di velluto foderato di morbida pelle di capretto con fibbia d’argento, lunghi calzettoni colorati a strisce orizzontali, di cotone ritorto, coprivano le gambe sopra il ginocchio dove si rovesciavano e venivano fermati con legacci fuoruscenti dallo stesso tessuto. Indossavano pantaloncini corti, quasi alla moschettiera, una robusta camicia, o meglio casacca di tela di pelle, con la maniche rimboccate, abbottonata alle spalle, scendeva fin quasi ai femori. Infine intorno alla vita un grembiale di tela, di cotone o di pelle, mentre in testa un berretto a forma di calotta solitamente bianco o rosso.
Lo scrittore Giuseppe Porcaro in un famoso libro dell’epoca “Taverne e locande della vecchia Napoli”, ci illustra il regno dei Mastri tavernari era prevalentemente la cucina con i suoi banchi per gli impasti e i taglieri, con i suoi murelli per le fornacelle, le colonnine di piperno (sono colonne di roccia magmatica, che troviamo nelle strade antiche di Napoli sul ciglio della strada) con i mortai di marmo per pestare sale e altro, mentre il mortaio di bronzo per pestare, droghe, aromi.
È chiaro come appare anche da documenti citati nel libro di Giuseppe Porcaro in un “Taverne e locande della vecchia Napoli” che alcuni di questi Mastri erano al tempo stesso dirigenti di cucina e tavernari proprietari o conduttori, adempivano cioè alla doppia funzione di badare ai fornelli e di spillare vino dalle cannelle, di servire il pubblico, intascare il conto, pagare le tasse.
Per lo più tale situazione si verificava soltanto per le taverne dei Casali e per le piccole e medie taverne cittadine, per quelle insomma senza la rinomanza che fece del Cerriglio, della Florio e del Crispano la triade delle più celebri osterie di Napoli.
Molti Mastri, e dipendenti lavoranti, erano della penisola sorrentina e della costa amalfitana, specialisti nel conoscere la qualità e freschezza del pesce, nell’arte di cucinarlo, nonché esperti nei condimenti a base di pomodori, rosmarino e sugna, e nell’arte di portare a perfetta e giusta cottura la pasta alimentare che proveniva massimamente proprio da quelle località.
All’epoca era già molto diffuso l’emigrazione, altri Mastri ed altri lavoranti erano “forestieri” ( proveniente da un altro luogo), di Roma, Geneva, Como, Massa Carrara e persino della Lombardia, attratti a Napoli dalla ricercatezza della cucina.
Un fattore molto importante era la “Congregati in confraternita”, avevano, nel 1580, una propria Cappella nominata Santa Maria della Catena, eretta nella venerabile chiesa di S. Nicola alla Carità, disciplinavano il governo della loro arte, la manutenzione della Cappella, l’erogazione di elemosine, la regolamentazione delle festività, l’elezione dei Consoli, la concessione di licenze per installazione di nuove taverne e via dicendo.
Lo scrittore Giuseppe Porcaro, annovera anche un elenco delle disposizioni dell’epoca, vi cito una piccolissima parte:
Ogni anno del 15 agosto, nella festività della Cappella, venivano eletti 2 Consoli e 2 Mastri dell’Arte;
Ogni Capo di taverna era tenuto a versare grana 5 di elemosina, ogni sabato, per la manutenzione della Cappella, e ciascun lavorante una cinquina di 5 tomesi;
Nessuno poteva aprire nuova taverna (tanto in città che nei Borghi e Casali) senza espressa licenza dei Consoli dell’Arte dei tavernari e senza aver prima pagato ducati 3;
Ma udite, vi era una disposizione particolare, ovvero: In caso di sopravvenuta povertà di qualcuno dei tavernari o lavoranti iscritti all’Arte ed alla Confraternita, i Consoli e i Maestri dovevano soccorrerli e aiutarli con sovvenzioni di danaro e di quant’altro fosse necessario.
Venendo a morte un tavernaro o lavorante poteva essere sotterrato nella detta Cappella in una apposita fossa e tutti i tavernari e lavoranti di taverne dovevano seguire il feretro lino al seppellimento della salma;
In caso di malattia di un Tavernaro o lavorante, tanto uomo che donna, i Consoli e i Mastri avevano l’obbligo di andare a visitarli e sovvenirli di tutto quanto fosse necessario in danaro, medici e medicine.
Cose di altri tempi!
Fonte: Dal libro antico di “Giuseppe Porcaro” “Taverne e locande della vecchia Napoli” 1970